Emergenza abitativa: dall’esperienza dell’occupazione della case Mazzi al depauperamento del patrimonio edilizio popolare

In questo articolo proponiamo una lettura dell’emergenza abitativa prendendo in considerazione il caso veronese. Dal “piano Fanfani” in poi nessuna politica governativa per l’edilizia popolare ma, al contrario, un progressivo depauperamento del patrimonio immobiliare pubblico portato aventi anche dalle amministrazioni scaligere. Le esperienze delle grandi occupazioni degli anni 70 sono ormai lontane ma il diritto all’abitare resta presente e crescente.
le foto riguardano l’occupazione delle case Mazzi e fanno parte dell’archivio del Centro di documentazione Giorgio Bertani e, in particolare, del fondo Aldo Pancirolli, che ringraziamo per la donazione.
Articolo di Andrea Nicolini pubblicato il 27 maggio 2025
Il 24 aprile 1975, all’incirca 50 anni fa, a Verona venivano occupate le Case Mazzi. Si tratta di un complesso di edifici che ospitano più o meno 220 appartamenti. Il vincolo edilizio che contraddistingueva l’area ricadeva già all’epoca nella fattispecie dell’edilizia popolare e quindi sottoposta a canoni calmierati.

Le case costruite dalla ditta Mazzi rimanevano però sbarrate agli aventi diritto prefigurando una grossa manovra speculativa.
Tra parentesi va detto che già all’epoca, come ci ha riferito Toti Naspri nella sua intervista, grosse speculazioni edilizie tese a svuotare il centro storico dei suoi abitanti, in maggioranza operai e sottoproletari.
Già nel 1973 gli attivisti di Avanguardia operaia, realtà maggioritaria nella sinistra rivoluzionaria cittadina, avevano occupato simbolicamente per qualche ora alcuni alloggi delle Case Mazzi al fine di sensibilizzare l’opinione pubblica sulla situazione di illegalità che si era venuta a creare nella mancata assegnazione degli appartamenti.
Quell’iniziativa rappresentò il prologo alla messa in atto di un’occupazione imponente, estesa e duratura che comprendesse l’intero complesso abitativo.

I militanti di Avanguardia operaia iniziarono un difficile lavoro di scrematura per selezionare i primi occupanti delle Case Mazzi. Non era semplice in quanto vi erano diversi criteri da rispettare nella scelta. In primo luogo gli occupanti dovevano far parte di un nucleo familiare comprensivo di figli nella speranza che questo li mettesse al riparo da un probabile sgombero forzato. Inoltre non dovevano lasciare l’appartamento incustodito e vuoto. Gli attivisti della sinistra rivoluzionaria abitarono all’interno del caseggiato per diversi mesi anche per sostituire la presenza nell’appartamento di chi avesse dovuto assentarsi per recarsi al lavoro.

A Verona il tema dell’emergenza abitativa era molto sentito in quegli anni e in precedenza vi era già stata l’occupazione delle Case Crescenti di S.Michele. In seguito altre occupazioni seguirono tra le quali spicca quella effettuata in via S.Giovanni in Valle nelle cosiddette “Case del Duca”.
Nemmeno a quel tempo l’occupazione di case era semplice e nel resto d’Italia difficilmente grosse occupazioni, come quella delle Mazzi, arrivavano ad un esito positivo. Le forze dell’ordine non andavano molto per il sottile e trascinavano a forza le persone in strada strappandole da quella che per loro aveva rappresentato una speranza.
Il timore che tutto si risolvesse in un’azione di forza della celere e dell’esercito era quindi ben presente negli attivisti che avevano però pianificato molto bene i loro passi.

Quando alle 6.30 del mattino i compagni di Avanguardia operaia affluirono in forze da diverse zone della città per forzare i cancelli di ingresso, un nutrito pool di avvocati era già pronto a depositare una denuncia contro il Comune di Verona ritenuto inadempiente ai suoi doveri visto che gli appartamenti continuavano a restare inaccessibili alla comunità veronese e, in particolare, agli operai e ai sottoproletari. L’esposto depositato in Procura all’apertura degli uffici mise in seria difficoltà l’amministrazione comunale che veniva colta in fallo e avrebbe peggiorato le cose se avesse supportato un’eventuale sgombero.
In realtà l’occupazione si svolse in due tempi. La mattina del 24 aprile vennero occupati solo una piccola parte degli appartamenti mentre nei mesi successivi, durante una grande assemblea tenutasi nei sotterranei del complesso abitativo alla presenza delle famiglie candidate ad impossessarsi del resto degli appartamenti, si decise di prendere in contropiede l’eventuale azione delle forze dell’ordine occupando seduta stante il resto degli alloggi.
Il giorno successivo, la Festa della Liberazione, vide una grossa presenza solidale della cittadinanza. Una solidarietà che accompagnò tutto il perìodo dell’occupazione. A quei tempi il quartiere di Borgo Milano e soprattutto quello limitrofo di Borgo Nuovo, erano zone alquanto disagiate e costituivano l’ultima periferia veronese nel suo lato ovest. L’arrivo di centinaia e centinaia di nuovi abitanti dette fiato sia all’economia locale che ad una rinnovata socialità aiutando i quartieri a crescere e obbligando l’amministrazione a fornire nuovi servizi più adeguati al numero crescente di cittadini.
Le prime 40 famiglie di occupanti, come del resto quelle che le seguirono, erano state selezionate con cura, tra le più disagiate ed in situazione emergenziale prospettando loro una situazione complessa che avrebbe potuto comportare una denuncia a fronte di una improbabile regolarizzazione dello status di occupante.
Inoltre nei primi mesi le famiglie furono costrette ad abitare appartamenti senza luce, acqua e gas.
La notte gli attivisti di Avanguardia operaia posizionavano i picchetti per allontanare i fascisti che tentavano di incutere timore e per farsi trovare pronti nel caso si fosse presentata la polizia in forze per attuare lo sgombero. Va precisato che, nel caso tale opzione si fosse palesata, le indicazioni non erano orientate a resistere ma, vista anche la presenza di bambini, era invece previsto l’abbandono delle case Mazzi nel modo più pacifico e indolore, sia dal punto di vista fisico che giudiziario, del complesso.

Pochi mesi dopo la seconda occupazione Avanguardia operaia si affacciò sulla scena politica nazionale un nuovo soggetto. Si trattava di Democrazia Proletaria, un partito che a Verona riunificò gran parte della sinistra rivoluzionaria. Nelle elezioni comunali di Verona che si tennero di lì a poco Dp raggiunse il 4% dei voti eleggendo un consigliere comunale. Si trattava di Remo Bresciani, la persona che creò, assieme ad altri, il primo nucleo di Unità Proletaria che in seguito, grazie anche al lavoro di Vittorio Borelli, confluirà in Avanguardia operaia.
In realtà il seggio da consigliere si mantenne in una sorta di staffetta e mentre Remo Bresciani ricoprì quel ruolo dal 1975 al 1977, Toti Naspri gli subentrò tra il 1977 e il 1980 grazie alla valanga di voti ottenuta proprio in seguito all’occupazione delle Mazzi.
L’amministrazione era guidata dal sindaco Gozzi, democristiano della corrente di sinistra e quindi sensibile alle tematiche sociali quale quella dell’emergenza abitativa. Vicesindaco era Gianfranco Bertani che Naspri ricorda come un raffinato intellettuale.
La battaglia intrapresa dagli occupanti delle Mazzi si innestò, a quel punto, con la presenza dei consiglieri di Democrazia Proletaria in Comune.
Il percorso verso la regolarizzazione degli abitanti delle case Mazzi era iniziato. Non fu cosa semplice e ci volle tutta l’abilità e la pazienza dei consiglieri della sinistra rivoluzionaria e del supporto continuo delle famiglie delle Mazzi che periodicamente si presentavano sulle balconate del consiglio comunale e all’esterno di Palazzo Barbieri con striscioni, volantini e megafoni.
Alla fine quasi tutti gli occupanti sono stati regolarizzati e solamente i pochi che nel frattempo avevano perso il diritto alla casa popolare magari per una variata condizione economica sono stati esclusi dall’assegnazione,
Un obiettivo raggiunto grazie al coraggio e alla perseveranza di chi ha deciso di lottare per la propria condizione abitativa che in fondo equivaleva, ieri come oggi, ad una precisa priorità nella vita delle persone.
L’occupazione delle Case Mazzi, scrive Beppe Braga in un recente articolo pubblicato su Veronapolis, fu anche la risposta all’esaurimento dell’unico Piano casa mai realizzato in Italia.
La questione casa è sempre stata una costante nel tempo al di là del momento storico, Una specificità sempre attuale sia nel tempo dei grandi fermenti politici che nei lunghi periodi di riflusso e di calma apparente.
Oltre alle occupazioni degli anni 70 Verona ha vissuto altri esempi di lotta su questa tematica che, anche se compiute con metodi meno radicali rispetto alle case Mazzi, sono riuscite a raggiungere il risultato.
Dopo vicissitudini durate lunghi anni, le case Azzolini di Borgo Roma, conosciute come “case rosse”, sono state recentemente acquistate in via definitiva dal Comune di Verona. Il 14 gennaio 2021 è infatti avvenuto il rogito tra Comune e Inps, fino ad allora proprietario dei 180 appartamenti costruiti decenni fa. Anche in questo caso va sottolineato come l’iniziale inerzia del Comune di Verona è stata contrastata dai cittadini affittuari e dalle realtà di movimento che li sostenevano. Con la firma del contratto è decaduto quindi anche il canone di 560 milioni di euro l’anno pagato fino ad allora all’ente previdenziale.
Per il resto il Comune di Verona e gli enti preposti all’edilizia popolare hanno eseguito qualche manutenzione ed opere di riqualificazione a fronte di una domanda crescente che resta inevasa.
Abbiamo assistito ad una dismissione progressiva del patrimonio edilizio popolare. Scriteriata la scelta di vendere gli alloggi popolari agli affittuari invece di garantire loro l’alloggio per tutta la vita per poi riassegnarlo ad altre famiglie aventi diritto.
Ancora più incomprensibile è ai nostri occhi la messa all’asta di numerosi appartamenti di Agec. In questo caso la vendita al miglior offerente è proprio l’antitesi della consegna delle case popolari ai nuclei familiari meno abbienti.
Le ambizioni di chi avrebbe diritto ad una casa popolare sono state definitivamente sepolte durante l’amministrazione Tosi. L’ex sindaco costrinse Agec a sottoscrivere un mutuo capestro di 30 milioni di euro pe l’acquisto delle licenze di 13 farmacie che peraltro erano già proprietà del Comune di Verona. Gli interessi sul mutuo sono talmente alti che prosciugano sistematicamente e quasi completamente tutti i ricavi di Agec derivanti dai canoni di locazione impedendo sempre più non solo la costruzione di nuovi edifici popolari ma anche importanti interventi manutentivi.
Per quanto riguarda l’Ater, (l’Ente regionale per l’edilizia residenziale popolare) le disponibilità economiche concesse dalla Regione Veneto sono insignificanti alla luce delle domande di alloggio e della semplice manutenzione delle case già esistenti.
Queste sono le ragioni per le quali oggi esistono, sul nostro territorio, centinaia e centinaia di appartamenti non assegnati perché non rispettano più le più elementari normative di sicurezza e non possono essere riammodernate per mancanza di fondi.
Una proposta per tentare di risolvere questa situazione arriva da Giuseppe Braga, importante figura nell’ambientalismo e nel sindacalismo veronese. Riportiamo di seguito uno stralcio di un suo recentissimo articolo scritto per Veronapolis in cui egli illustra uno strumento a suo dire utilizzabile per interrompere il circolo vizioso che pone gli enti preposti all’edilizia popolare nella condizione di non poter svolgere il loro ruolo primario:
ritengo tuttavia che L’AGEC, d’intesa con il Comune di Verona, potrebbero utilizzare uno strumento finanziario rappresentato da un documento sottoscritto in data 10 gennaio 2012 fra l’allora presidente dell’AGEC sig. Giuseppe Venturini, unitamente con i Consiglieri di Amministrazione e i Sindaci Revisori dei Conti dell’AGEC stessa, che richiama tre delibere del C.di A. di AGEC con le quali venivano approvate congiuntamente altrettante delibere del Consiglio Comunale di Verona del 23 luglio dicembre 2009 e 22 dicembre 2010.
Con tali delibere il Consiglio Comunale di Verona approvava una “Riconversione patrimoniale immobiliare” in tre fasi ravvicinate e descritte in detto documento, per un importo complessivo di euro 113.464.350,00 a favore dell’AGEC, da destinare per interventi di recupero e incremento del patrimonio di proprietà dell’AGEC di Verona.
La domanda finale che si pone Braga è: Perché l’Agec non da attuazione a questa possibilità?
Non abbiamo le competenze necessarie per valutare se lo strumento ipotizzato da Braga sia davvero utile a sbloccare fondi per l’edilizia popolare ma riteniamo che una risposta da parte di Agec, positiva o negativa che sia, vada pretesa.
Da parte nostra sinceramente non crediamo si tratti semplicemente di un fattore tecnico o burocratico da superare ma di una precisa volontà politica che ha a che fare con l’epoca storica che stiamo vivendo.
Le case popolari sono state troppo spesso trasformate in ghetti dalle stesse amministrazioni comunali abbandonando a sé stessi gli abitanti e in alcuni casi privandoli di servizi territoriali fondamentali.
Questo percorso è stato affiancato da una denigrazione progressiva del concetto di casa popolare additata come portatrice di degrado e scaricando così sugli stessi abitanti le responsabilità di scelte politiche sempre più distanti dalla sfera del sociale e sempre più attente agli appetiti dei palazzinari.
Le politiche territoriali e governative troppo spesso creano dapprima le condizioni che portano al degrado e al disagio per poi denunciarlo a gran voce promettendo in campagna elettorale più sicurezza (e repressione) alla cittadinanza impaurita anche grazie a studiate campagne di stampa propagandistiche. Il giro di vite poi arriva ma i problemi che stanno alla base non vengono risolti…In fondo possono rappresentare un nuovo bacino di voti per le prossime elezioni!
Tutto questo in un contesto nel quale la “cultura” egoistica della primazia delle necessità individuali viene sempre più contrapposta alle esigenze della collettività.
All’interno del Ddl Sicurezza appena approvato con l’apposizione della fiducia e che dovrà essere convertito in legge entro il 10 giugno propone, ad esempio, il nuovo reato di occupazione di casa di residenza comminando pene dai 2 ai 7 anni. Pensiamo sia normale che chi si vede occupata la casa mentre magari è fuori per lavoro o per una degenza all’ospedale si veda riconsegnare la sua abitazione in tempi immediati. Siamo meno d’accordo sulle pene in quanto, se da una parte si reprime dall’altra non è previsto nessun provvedimento che risolva alla radice la negazione del diritto all’abitare. Nessun piano casa, un’attenzione praticamente inesistente all’edilizia popolare e inoltre la cancellazione dei fondi dedicati alla morosità incolpevole.
Riteniamo si tratti della prova lampante di ciò che sosteniamo: una vulgata repressiva per tutelare l’interesse privato a fronte di una disattenzione voluta rispetto alle necessità della collettività, a partire dalle fasce più fragili della popolazione.
Il tempo della “Milano da bere” e del “privato è bello” hanno segnato l’inizio di questo perìodo storico arrivando a trasformare anche la politica istituzionale. I partiti sono sempre più entità personali e personalizzate e sempre meno fucine di programmi chiari scritti nero su bianco.
Viviamo così in una realtà distopica nella quale ciò che si afferma il giorno prima non è più all’ordine del giorno all’indomani.
Ecco, forse una vera idea di sinistra dovrebbe lasciare da parte i tronfi protagonisti di una politica “sinistrata” e recuperare invece la necessità e la bellezza di un concetto di pubblico che recuperi spazio e risorse rispetto alla concezione privata e di un orizzonte che contrasti fortemente l’ideologia del massimo profitto per riconsiderare le reali necessità sociali, a partire, ovviamente, dall’emergenza abitativa e dal depauperamento della sanità pubblica!