Siamo uomini o caporali?

Due lavoratori pakistani, o meglio, due persone ridotte in schiavitù, decisero, qualche tempo fa, prostrati dalla loro condizione, di rivolgersi ad un sindacato per denunciare la loro condizione, la segregazione alla quale erano sottoposti dai loro connazionali e aguzzini che li costringevano a vivere miseramente, pagandoli pochi spiccioli per lavorare dalle 12 alle 16 ore al giorno, sette giorni su sette e taglieggiandoli dello stesso salario.

La “cooperativa” per la quale lavoravano era la cooperativa B.M. Service, di proprietà di Badar padre e Badar figlio. Quando essi scoprirono che i loro schiavi avevano osato ribellarsi chiedendo aiuto e giustizia non esitarono a rapirli, picchiarli selvaggiamente e abbandonarli legati nelle campagne del padovano.

L’indagine della magistratura è partita da quell’episodio, e ha ricostruito le collaborazioni e i contratti che legano la B.M.Service ad aziende italiane. In particolare l’attenzione degli inquirenti si è focalizzata su una stamperia grafica nota a livello internazionale, la Grafica Veneta, che utilizzava i malcapitati “lavoratori” della cooperativa almeno dal 2015.

Le intercettazioni telefoniche e altri elementi di prova hanno permesso ai carabinieri di dimostrare la consapevolezza, e quindi la corresponsabilità nei reati ascritti ai Badar, di due figure apicali di Grafica Veneta. Si tratta dell’amministratore delegato Giorgio Bertan e del responsabile della sicurezza Giampaolo Pinton.

Secondo ciò che sta scritto nelle 95 pagine dell’ordinanza che motiva le misure cautelari messi in atto contro la banda dei pakistani e i due dirigenti di Grafica Veneta questi ultimi «sono perfettamente a conoscenza delle circostanze che esprimono gli indicatori dello sfruttamento».

A dimostrare la correità sarebbe, ad esempio, il tentativo estremo fatto dall’amministratore delegato al momento dell’irruzzione dei carabinieri, il 7  luglio scorso, di cancellare i dati di entrata e uscita dal lavoro dei dipendenti di B.M.Service. Tentativo peraltro fallito in quanto parte di quei dati sono stati recuperati e ora vanno ad implementare le prove di un disegno che non si ferma, come spesso succede, alla sola responsabilità dei caporali.

Eppure i profitti derivanti dalla produzione e dalla vendita di mascherine iniziata all’insorgere della pandemia descrivono un’azienda florida, che non avrebbe certo avuto bisogno, per salvarsi dalla crisi, di lavoratori stranieri in sub-appalto, ne, a maggior ragione, di lavoratori schiavizzati! I bilanci aziendali parlano chiaro, ed evidenziano un utile passato dai 6 milioni del 2019 ai 50 milioni del 2020, con l’incredibile percentuale d’incremento del 450%!

Per spiegare questa storia è necessario fare un passo indietro, ricordando che essa non ha alcun attinenza con i fatti fin qui riportati ma che però aiuta, a nostro avviso, a delineare un quadro ricco di connivenze e interessi paralleli che accomunano una certa imprenditoria e una certa classe politica in pratiche potenzialmente altamente lesive nei confronti dei cittadini, dei lavoratori e della stessa salute pubblica.

Grafica Veneta, infatti, era salità alla ribalta delle cronache locali e nazionali quando, dopo l’esplosione della pandemia, donò due milioni di mascherine alla regione, guadagnandosi il plauso di Luca Zaia e di Elena Donazzan in primis, che, elargendo “spot” gratuiti all’azienda, sfruttarono nel contempo la donazione cercando di dimostrare come il Veneto fosse all’avanguardia nel contenimento del contagio e addirittura in grado di risolvere da solo il cruciale problema del reperimento di mascherine che, all’epoca, erano rare e nello stesso tempo rappresentavano l’unica protezione contro il contagio.

Non vi sarebbe stato nulla da ridire su tutto questo se le mascherine fossero state davvero utili nel temtativo di impedire il contagio. In realtà, mentre il presidente di regione presentava le mascherine “made in Veneto” come strumento necessario per la protezione individuale e l’azienda si affannava nel presentare certificazioni di laboratori privati riguardanti la non tossicità del suo prodotto ma non riusciva ad esibire quella ministeriale sui dispositivi di protezione individuali, la verità si faceva strada.

Quelle mascherine che venivano depositate nelle cassette delle lettere dei cittadini veneti non potevano ricevere le necessarie autorizzazioni perché, come avvisava il foglietto di istruzioni allegato e che riportava il logo della regione Veneto e di Grafica Veneta “Non è un dispositivo medico chirurgico, ne un dispositivo di protezione individuale. Non garantisce la protezione dei suoi utilizzatori dal contagio, da agentii patogeni, ne garantisce il mancato contagio da agenti patogeni a soggetti terzi”.

Annotazione doverosa per non incorrere in reati, ma decisamente contraddittoria rispetto alla propaganda politica che continuava a decantare, nonostante tutto, i vantaggi derivanti dall’utilizzo di quelle mascherine, rischiando di indurre migliaia di persone ad indossarle fiduciosi nel sentirsi protetti dal virus del Covid mentre in realtà erano totalmente esposti al contagio.

E’ plausibile che quella miracolosa riconversione della produzione di Grafica Veneta sia stata eseguita dagli stessi lavoratori schiavizzati di cui nei giorni scorsi hanno dato notizia i media locali ma nella sua unica dichiarazione il presidente del Veneto Luca Zaia, pur definendo i fatti “gravissimi”, si affretta poi a dire che i processi si fanno nei Tribunali contraddicendosi un momento dopo quando si lascia di nuovo andare in profusioni e ringraziamenti nei confronti di Fabio Franceschi, il patron di Grafica Veneta, rivelando, forse per la prima volta, che le mascherine complessive regalate alla regione non sono state 2 milioni…ma ben 13 milioni…Il minimo che si possa affermare e che Luca Zaia ha sicuramente un gran debito di riconoscenza nei confronti di Franceschi!

La pericolosità che denota un comportamento talmente ipocrita che tiene conto solo delle vicende più utili al mantenimento del consenso, tacendo su quelle che potrebbero creare imbarazzo, sono seconde solamente a quella commistione tra interessi economici, politici, (all’interno dei quali quasi sempre la politica soccombe), e talvolta, come in questo caso, criminali, che spesso favoriscono la compressione dei diritti e dei servizi, se non la negazione completa della dignità altrui come questa storia ripropone, delle fasce di popolazione più povere e meno garantite.

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